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Sarasvatī, “la migliore dei fiumi, la migliore delle madri, la migliore delle Dee”

Sarasvatī, “la migliore dei fiumi, la migliore delle madri, la migliore delle Dee”

Dalla voce delle Upanisad di Graziella Di Salvatore

Colei che ‘scorre’

Sarasvatī (Saraswati, सरस्वती),  significa letteralmente“scorrere”, “fluire” ed è una delle immagini divine indiane più famose, dalle sembianze femminili, raffiguranti la sapienza e le arti. Essa è  la  rappresentazione del perdono e della “Sacra” conoscenza, legata al superamento della māyā (illusione apparente) e alla contemporanea com-presione dis-velata all’uomo, della “Verità” metafisiche che si celano dietro ad essa. Come raffigurazione della sapienza, «la sua natura», come recita direttamente la Sarasvatī Rahasya Upaniṣad (rahasya significa segreta, esoterica) «è l’essenza del significato del Vedanta (…) la Suprema Dea sovrana, che si manifesta come nomi e forme» (M.P. Karuna Devi, 2012, p. 457). Considerata per antonomasia “la luce” della conoscenza, intesa duplicemente come sapere acquisibile e come ‘disvelamento’ della propria interiorità, oltre che ad esserle esplicitamente dedicata la Sarasvatī Rahasya Upaniṣad le sono anche stati dedicati tre Inni del Ṛgveda ( il LXI del Libro VI e gli Inni XCV e XCVI del Libro VII) che, più anticamente rispetto alla raffigurazione della Dea descritta nell’Upaniṣad, le attribuiscono il nome, appunto, di un fiume leggendario e sacro, costituito di numerosissimi affluenti ed esistito fin dall’epoca delle antichissime civiltà “pre-Arie” della Valle dell’Indo.

La ‘luce’ dei Veda

Per la cultura vedica la sua figura è fondamentale tanto che Agastya, uno dei sette antichi leggendari Ṛṣi (ossia dei sette ‘veggenti’ che, secondo la Tradizione, hanno composto i Veda) le ha dedicato un bellissimo mantra, il Maha Sarasvatī Stotram, descrittivo delle sue qualità e della sua raffigurazione, da invocarsi per ottenere l’ispirazione nella pratica dello yoga, per avere chiarezza interiore. Anche il più grande e famoso filosofo metafisico Adi Śaṅkara, codificatore e commentatore dei Veda,  ha ritenuto la sua figura essenziale dando il suo nome a uno dei suoi dieci ordini monastici da lui costituiti a tutela e trasmissione dell’antica, autentica conoscenza vedica. Anzi, per meglio dire, Śaṅkara fonderà per l’ordine degli Sarasvatī ben due monasteri, uno a Sringeri, nello Stato Federato del Karnataka ubicato a sud dell’India, e uno a Kanchipuram, nello Stato Federato Tamil Nadu, sempre ubicato nel sud dell’India (quest’ultimo è visto come il “centro ideale” degli altri quattro maṭha –monasteri appunto dislocati ai 4 punti cardinali dell’India, in ciascuno dei quali Śaṅkara ha posto a capo uno śankaracārya, ossia un ‘Maestro della Tradizione’ Advaita, ancor oggi esistenti). L’ordine degli Sarasvatī significa letteralmente “ordine della saggezza della natura”, qui intesa molto probabilmente non solo come osservazione-allineamento dell’uomo con l’armonia del creato ma anche più profondamente come unione a ciò che essenzialmente, per “natura”, lo costituisce e lo qualifica nel suo “essere” profondo, mediante la pratica yogica e la sua conoscenza, come avremo modo di vedere nella nostra discussione.

La ‘Regina delle acque

Dicevamo che anticamente Sarasvatī, nel Ṛg Veda, era il nome dato al fiume che, alimentato dai suoi numerossimi affluenti, bagnava l’India del nord-ovest, lungo cui si sono sviluppate, ancor prima dell’invasione degli Arii, le famose civiltà di Harappa e di Sarasvatī-Sindhu. Secondo alcuni studiosi il fiume avrebbe modificato negli anni il suo corso a causa dei movimenti tellurici susseguitisi sulla catena dell’Himalaya ed alla fine, sempre per questo motivo, esso sarebbe scomparso definitivamente dalla superficie, scorrendo poi definitivamente sottoterra. Quando era ancora ubicato in superficie Sarasvatī era il luogo in cui i Ṛṣi effettuavano le proprie abluzioni sacre in onore della natura, vista da loro come l’espressione materiale (Prakṛti) in cui il divino Brahman esprime la sua presenza (saguṇa) mediante la sua energia pranica, il suo “spirito vivente” (Puruṣa), ossia, per utilizzare analogamente una nota espressione platonica, la sua “Anima del mondo”. Tuttavia la sacralità di Sarasvatī venne man mano meno quando la civiltà Aria conquistò i territori indiani espandendosi verso l’India centrale e, proprio per questo “spostamento” umano di potere e di interessi dalla “Valle dell’Indo” alle pianure centrali, tale sacralità venne poi attribuita definitivamente al Gange, che ancora oggi la conserva. I tre Inni del Ṛgveda dedicati a Sarasvatī, come del resto tutti i 1017 Inni in esso contenuti ordinati in Dieci Libri, sono in sostanza un insieme di versi filosofico-poetici, “ispirati” secondo la tradizione vedica dal Divino ai Ṛṣi. Essi esaltano nel nostro caso specifico la divinità di Saravatī attraverso la contemplazione del creato e le sue specifiche qualità da essa espresse. Tuttavia come noto tali Inni, recitati e cantati anticamente da questi grandi “saggi”, sottintenderebbero anche esotericamente una conoscenza e un sapere della “Verità” (Sat) “velata” e conoscibile solo dagli iniziati ai Misteri vedici, attraverso l’esclusiva comunicazione dal Maestro (Svāmi) ai suoi allievi più meritevoli. Questa trasmissione orale dell’antica conoscenza, mediante il cosiddetto “paramparā“, è stata conservata per tale motivo nei millenni ed ancora oggi lo yoga (quello autentico della ‘Tradizione’, ovviamente, non certo quello ‘modaiolo’ dai tanti nomi e dalla mera esaltazione contorsionistica del corpo) si caratterizza essenzialmente attraverso un lignaggio ben preciso, con cui autenticamente esso viene trasmesso.

La ‘comprensione della “Verità, dai diversi nomi’

Ma di quale Verità esoterica, “unica” ma “chiamata con diversi nomi”, fluita lungo le rive di Sarasvatī e trasportata seguitamente tra le genti della Valle dell’Indo, i Ṛṣi erano diretti custodi?

Per rispondere a questa domanda e comprenderne la risposta più pienamente possiamo analizzare in modo diretto la Sarasvatī Rahasya Upaniṣad, contestualizzandola agli altri testi metafisici del Vedānta a cui essa filosoficamente ed esotericamente fa riferimento e che traggono la loro origine, appunto, dagli antichi Inni contenuti nel Ṛgveda.  La Sarasvatī Rahasya Upaniṣad può essere divisa in due parti. La prima è legata alla descrizione, da parte del saggio Asvalayana, delle qualità, degli attributi e del mantra di Sarasvatī, qui non più raffigurata come dicevamo con le sembianze del fiume ma come la conosciamo ancora oggi, ossia con le sembianze della famosa Dea che in sè esprime, appunto, specifici aspetti della manifestazione del divino Brahman. La seconda parte, invece, è più espressamente legata al significato profondo della conoscenza spirituale e all’oggetto della conoscenza spirituale stessa che Sarasvatī rappresenta e che per l’indiano è microcosmico e macrocosmico insieme poichè, per la sua visione del mondo, speculare filosoficamente sull’essenza dell’uomo equivale a speculare sull’essenza stessa del suo divino creatore.

L’Upaniṣad si apre con una domanda topica rivolta ad Asvalayana, che a ben vedere attraversa tutto il sentire spirituale vedico: «come si può ottenere la conoscenza che illumina il significato della parola Tat (“quello”)?» (M.P.Karuna Devi, 2012, p.456), come, cioè, possiamo conoscere “Quello”, ossia il nostro sé interiore, la nostra coscienza (per utilizzare un’espressione laica) o la nostra anima (per utilizzare un’espressione più religiosa)? Domanda a cui metodologicamente è collegato, in modo inevitabile, il secondo quesito dell’Upaniṣad : in che modo, «con quale meditazione si può raggiungere la Verità» (M.P.Karuna Devi, 2012, p.456) di Quello? A queste due domande segue una lunga risposta di Asvalayana legata alla recitazione ‘illuminante’ e ‘disvelante’ del mantra di Sarasvatī, collegata alla riflessione dei versi a lei dedicati contenuti nel Ṛgveda e alla recitazione ripetitiva dei suoi bīja mantra (ossia dei monosillabi seminali mistici) in grado, secondo i Veda, di connetterci con la nostra parte più intuitiva ed aiutandoci così nella sua più profonda comprensione. Il mantra di Sarasvatī a cui con molta probabilità fa riferimento Asvalayana è il famoso “Sarasvatīgāyatrī”, ossia “OṀ Vāgdevyai vidmahe kāma-rājāya dhīmahi tanno devī pracodayāt OṀ”, che significa, orientativamente: “OṀ Conosciamo limmagine divina (luce) della Parola (dei Veda, della conoscenza), meditiamo sul (nostro) desiderio regale (del conoscere) affinchè possiamo comprendere il suo corpo universale, OṀ”. Ancora oggi, secondo la ‘Tradizione’, esso viene ripetuto dagli studiosi hindū prima di approcciarsi alla lettura dei Veda (unitamente alla recitazione di altri mantra) e recitato giornalmente da coloro che portano il suo nome, quale invocazione di buon auspicio e anche di inter-connessione energetico-vibrazionale, per essere illuminati nella comprensione della “Sacra conoscenza” verso cui essi volgeranno la loro attenzione ed il loro studio.

“La sacra parola”

Dalla stessa descrizione contenuta nell’Upaniṣad il mantra di Sarasvatī, come del resto risultano essere profondamente nella loro essenza tutti i mantra vedici, viene visto infatti non tanto o non solo come atto devozionale da recitarsi nei confronti del divino ma, più profondamente, come possibilità sonora, per chi lo recita o canta, di entrare in assonanza vibrazionale con l’armonia universale del creato. Ciò permetterebbe al recitante di individuare ed esprimere il proprio pensiero intuitivo che, secondo il pensiero indiano, connesso al cakra (centro energetico) del discernimento intellettivo (ājñā cakra, il cosiddetto ‘terzo occhio’ posto in profondità, al centro tra le sopracciglia) e alla discriminazione (viveka) che lo caratterizza, è strettamente correlato con la coscienza e che dunque permetterebbe l’espansione della propria coscienza interiore, interconnettendosi essa stessa con l’essenza spirituale delle cose esistenti nel creato (sulla base dello specifico campo di forza energetico generato dal singolo fonema), con il loro cioè “principio cosciente universale” presente nelle cose (Puruṣa). Questa interconnessione tra principio cosciente universale presente nelle cose (Puruṣa) e principio cosciente individuale (Jīvātman) permetterebbe poi al soggetto di dis-velare, conoscere e comprendere compiutamente l’Essente (Brahman), sia quello ‘rivelato’, presente nel mondo mediante gli attributi e le qualità delle cose (saguṇa) della materia ‘creata’ (prakṛti), sia quello ‘sconosciuto’, privo cioè di attributi (nirguṇa). In ultima analisi, essa permetterebbe di conoscere la Verità (Sat) di “Quello” (Puruṣa o Jīvātman), racchiusa ed espressa esotericamente nei Veda.

Sarasvatī medesima è allora non solo l’ispirazione delle “parole veritiere” o anche della parola «che dà nutrimento» e che «risveglia le menti»(M.P.Karuna Devi, 2012, p. 457), quale sinonimo della sapienza e della saggezza ad essa collegata, ma è anche la «facoltà di parola»(M.P.Karuna Devi, 2012, p.458), presente nascostamente ai più. Per i Veda la “sacra parola” della conoscenza, rappresentata da Sarasvatī, si presenta sottoforma di suoni presenti vibrazionalmente nelle cose esistenti e percepiti ed identificati dagli antichi Ṛṣi. Essa è sintetizzata per antonomasia nella sua forma suprema e primordiale della famosa sillaba mistica Oṁ (il cosiddetto ‘praṇava’) che li sottende tutti e che sottende a ben vedere i fonemi del sanscrito e del più antico devanāgarī (la lingua degli Dei, costituita di segni) che ad esso sono direttamente collegati.

Ma la “sacra parola” è presente anche ‘oltre’ essi, ‘oltre’ cioè il manifestato, e si presenta ‘senza attributo’ alcuno nel suono inespresso e silenzioso che precede la stessa Oṁ, in quel “quarto stato” di coscienza (Turīya) che si trova ‘oltre’ lo stato di veglia ‘irreale’ che viviamo (Jāgrad-avasthā), ‘oltre’ il sogno che facciamo di notte (Svapna-avasthā) e ‘oltre’ il sonno profondo, “senza sogni” (Suṣupty-avasthā) che facciamo a notte fonda. Anzi, a ben vedere, essa è presente in altre forme anche nell’ultimo ‘stato’ di coscienza (il quinto, denominato turīyatita), in realtà secondo l’India solo intuibile dall’uomo, che si cela ‘oltre’ tutto ciò che è percepibile dall’umano, come osserva bene anche lo studioso Daniel Odier nel suo Tantra Yoga. Sarasvatī (2003, p.60) è dunque anche in assoluto “Vāc”, la “parola Divina”, la rappresentazione del “suono supremo” da cui ogni cosa è nata e che sottende ogni cosa stessa: chi la «conosce spezza ogni legame e percorre ogni via verso la Dimora suprema», come viene osservato ancora nella Sarasvatī Rahasya Upaniṣad (M.P.Karuna Devi, 2012, p.458). In termini più yogici egli ottiene la liberazione dal proprio karman (in via ampia e generale, cioè, dalla legge universale di ‘causa ed effetto’ legata alle sue azioni personali, che caratterizza e qualifica il “ciclo delle rinascite” di ciascuno) e da essa egli può effettuare in piena libertà l’ascesa trascendentale verso l’Essente Supremo Brahman. Le qualità e caratteristiche di Sarasvatī, con cui essa viene raffigurata ancora oggi in India, sono descritte espressamente nell’Upaniṣad a supporto della conoscenza del “sacro sapere” racchiuso nei Veda che essa appunto raffigura e che dunque, per questo motivo, rileviamo in questa sede.

L’oca selvatica (haṃsa) sulla quale vola la Dea nelle sue raffigurazioni è il suo ‘veicolo’ e rappresenta la “Sacra conoscenza” perchè, secondo la ‘Tradizione’ vedantica, questo animale è in grado di separare il latte dall’acqua bevendo solo il latte quando essi sono mescolati insieme e gli vengono offerti, e dunque esso rappresenta la capacità discriminativa dell’intelletto di separare l’essenziale dall’apparente māyā (il velo cioè illusorio della realtà), il positivo dal negativo, l’avere dall’Essere. Sarasvatī inoltre è vestita di bianco perché bianco è il colore per l’India della vera conoscenza e della trascendenza; è spesso raffigurata con quattro braccia, che rappresentano l’ego, la mente, l’intelletto e la coscienza, ossia i quattro elementi di cui siamo costituiti e che utilizziamo nel bene e nel male per il nostro conoscere; è seduta vicino ad un fiume, che ne testimonia la sua origine e tutti i significati di cui abbiamo parlato in precedenza; ha in mano un japamālā (rosario di 108 grani), sempre di colore bianco, che rappresenta il potere della spiritualità, una vina (uno degli strumenti musicali indiani più antichi, chiamato anche sarasvatī vina), che rappresenta le arti, in modo particolare la poesia (antichissima espressione, appunto, della filosofia, come rilevava anche analogamente Aristotele), un libro (che rappresenta i Veda) e, infine, un’apolla di acqua, che rappresenta la forza purificatrice e creatrice. Guardando la raffigurazione di Sarasvatī il devoto dovrebbe esercitare ed amplificare in se stesso le sue qualità, finalizzate appunto alla conoscenza metafisica.

Sarasvatī, la Verità che ‘risveglia’

Per il pensiero indiano dunque Sarasvatī è come dicevamo sia il fiume, lungo cui è sorta e successivamente fluita l’antica civiltà degli Arii, sia medesimamente la più recente immagine della Dea (Devi), da cui scorre, fluisce, tutta la “Sacra conoscenza” vedica e, in questa evoluzione della coscienza umana, essa rappresenta come recita la Sarasvati Rashasya Upanishad «il fiume di nettare», l’amṛta, «che spegne l’incendio del ciclo di morti e rinascite» (M.P.Karuna Devi, 2012, p. 459). Sarasvatī stessa, così, viene ad essere la personificazione per antonimasia della «Verità», della «Conoscenza», della «Felicità», dell’eterno «Brahman»,(M.P.Karuna Devi, 2012, p. 459) del famoso cioè Sac-Cid-Ānanda (più noto anche come Sat-Cit-Ānanda, Sat -l’Ente e la Verità ad esso collegata-, Cit -la coscienza-, Ānanda -la beatitudine-) del pensiero vedico.

Secondo la fisiologia sottile dello yoga, cioè di quell’antichissima pratica di conoscenza psico-fisica e spirituale decrittaci nei Veda, esiste una nāḍī (cioè un canale entro cui scorre l’energia vitale, il prāṇa) che porta proprio il suo nome e che è ubicata davanti alla Suṣumnā (il canale più importante del corpo umano, che parte dal perineo e che arriva lungo la colonna vertebrale fino alla sommità del capo, dislocandosi internamente fino alla lingua): come descrive la Yoga Kundali Upaniṣad, agire su Sarasvatī-nāḍī attraverso alcune posture particolari e una specifica tecnica di prāṇāyāma (controllo del respiro), permetterebbe al praticante di risvegliare la stessa Kuṇḍali (più nota come Kuṇḍalinī), ossia quell’energia ‘primordiale residuale’ che secondo la Tradizione risiede, addormentata e avvolta come un serpente arrotolato in tre spire e mezza, sul Mūlādhāra cakra (il primo cioè dei sette centri energetici principali del corpo umano, situato nel perineo, alla “radice” della colonna vertebrale). Una volta “risvegliata”, attivata e fatta entrare nella Suṣumnā mediante la pressione sulla Sarasvatī-nāḍī, la Kuṇḍalinī salirebbe lungo la colonna vertebrale attivando via via tutti i cakra in essa disposti fino ad arrivare all’ultimo, Sahasrāra, ubicato sulla sommità del capo, raggiunto e perforato il quale l’essere umano otterrebbe, secondo i Veda, l’ascesa e la realizzazione yogica del “samādhi” (ossia della ‘Beatitudine Suprema’, cioè l’estasi o anche il ‘perfetto raccoglimento’ della trascendenza). Sotto questo profilo Sarasvatī è quindi anche ciò che permetterebbe alla Kuṇḍalinī di “fluire” nel suo apposito canale. Le sue acque “sacre” portano dunque ricchezza alle popolazioni della Valle dell’Indo ma allo stesso tempo portano anche loro la memoria dell’intero sapere vedico e dell’”energia” residuale ad essa collegata, che pertanto può essere appunto potenziata e veicolata attraverso le apposite tecniche yogiche, in verità ancora molto esoteriche.

L’energia vibrazionale di Sarasvatī

In termini più contemporanei potremmo anche dire che le sue acque un tempo si informatizzavano energicamente e positivamente, seguitamente alle cerimonie sacre degli abitanti della Valle dell’Indo, alle preghiere dei loro Ṛṣi, alle loro tecniche yogiche e in via generale al sapere vedico che, attraverso di essa e in essa, veniva e viene ancora trasmesso dalla civiltà hindū a tutta l’umanità, di là dello spazio e del tempo. In questo senso l’uomo vedico avrebbe compreso ancor prima della contemporanea “fisica quantistica” e degli studi sull’acqua condotti dallo scienziato giapponese Masaru Emoto, come l’energia si possa diffondere e qualificare proprio attraverso il suono e la parola e, ancor prima delle scoperte odierne sull’inconscio, come il pensiero emozionale stesso possa appunto caratterizzarla, indirizzando o, per meglio dire, informatizzando e influenzando di fatto la materia circostante e, allo stesso tempo così indirizzare la propria stessa vita. Per l’India, pertanto, come osservava analogamente Giordano Bruno in Occidente e come stanno rilevando anche appunto, nell’ambito scientifico, i recenti studi della ‘fisica quantistica’, “è il pensiero che genera la materia, e non viceversa”.

La “coscienza divina”

La conoscenza personificata da Sarasvatī diviene allora anche consapevolezza della e sulla realtà esperenziale del praticante e dello studioso: Sarasvatī esprime anche “la forma” della ‘coscienza’ divina che è presente di riflesso nella prakṛti, ossia nella materia creata mediante il puruṣa, lo spirito coscienziale in essa contenuto, pur se nascostamente. Essa esprimerebbe dunque la sua identificazione, manifestata e contenuta nei guṇa, cioè nelle qualità, negli attributi stessi che caratterizzano e distinguono tutta la materia. Pertanto, attraverso l’intuizione lo studio dei Veda e la pratica yogica l’essenza spirituale presente nella materia verrebbe secondo l’India disvelata e identificata. In sostanza la māyā, attraverso Sarasvatī, verrebbe così definita e caratterizzata in qualità di mero “mondo dei nomi e delle forme” (per utilizzare una famosa espressione del Vedānta) ma allo stesso tempo verrebbe anche dis-velata e identificata come mera espressione illusionistica dei sensi e del pensiero ordinario che la vive, la osserva e la pensa. Infatti māyā, come viene espressamente osservato nella Sarasvatī Rahasya Upaniṣad, «ha due poteri: proiettare e nascondere. Il primo manifesta tutti i mondi, sottili e grossolani, mentre il secondo stende un velo tra chi vede e ciò che è visto, tra il Brahman e la creazione» (M.P.Karuna Devi, 2012, p.459). L’uomo vedico ha compreso che il mondo materiale della māyā è plurale, contraddittorio e contrapposto, disomogeneo e diviso, duale e costituito di «forme» e di «nomi», mentre il Brahman che si cela in e oltre esso è unitario, lineare, omogeneo, «indiviso», e costituito di «esistenza» Reale, di «luce» e di «attrazione».

La “consapevolezza umana”

Entro quella visione unitaria tra microcosmo e macrocosmo di cui parlavamo prima, la Sarasvatī Upaniṣad chiarisce molto bene come, per disvelare la Verità del Divino, occorra concentrarsi sugli aspetti di Brahman non fuori ma dentro di sè, nel proprio cuore, laddove cioè, secondo il Vedānta, risiede, posto in una piccola caverna, il nostro sè interiore, e come poi, seguitamente a questo raccogliemento interiore, occorra meditare facendo affiorare in noi Dṛṣṭ, il “testimone silenzioso” della coscienza il quale, come un fiume (come Sarasvatī appunto), vede ‘scorrere’ davanti a sè ogni cosa, legata alla māyā. Più profondamente, nella māyā l’osservatore della coscienza vedrebbe i 5 kośa (involucri) che l’uomo “ha” e che costituiscono, assieme alla dualità e a tutti gli aspetti della prakṛti, la māyā apparente, semplicemente osservando tutto lo scorrere davanti a sè, senza per nulla interferire e prendendone consapevolezza.

E per comprendere meglio quanto stiamo dicendo, seguiamo ancora la ‘nostra’ Upaniṣad. Il testo distingue espressamente due tipi di ‘meditazione’ che l’uomo può fare per disvelare la māyā e così conoscersi nella sua essenza, una definita “esteriore”, ancora legata al rapporto-confronto con il “mondo dei nomi e delle forme”, e l’altra definita “interiore”, più distaccata da tale mondo, ritratta dalle percezioni circostanti che di esso abbiamo e volta totalmente alla contemplazione del sè interiore, posto appunto dentro di noi. Entrambe le meditazioni sono tuttavia legate al divino Brahman, nel suo dualistico essere Saguṇa, cioè spirito co-presente nella materia (puruṣa della prakṛti) e nel suo essere Nirguṇa, cioè spirito ‘oltre’ la materia (puruṣa di là della prakṛti).

Il ‘fluire’ della comprensione

Il secondo tipo di meditazione sottintende di fatto il distacco e la totale disidentificazione dai cosiddetti kośa (involucri) che, secondo il Vedānta, per natura materiale noi tutti “abbiamo”, e il dimorare totale consequenziale nell’ ‘essenza’ di cui, per natura sostanziale, noi tutti “siamo”. Ma di cosa si tratta?

Per il pensiero vedico i kośa sono gli elementi costitutivi della nostra natura materiale che appunto ‘abbiamo’ in quanto espressione creaturale, ma che non ci qualificano affatto nella nostra vera essenza profonda, perchè volti totalmente all’impermanenza. Essi sono cinque: il corpo, l’energia vitale, la mente, l’intelletto, il senso di beatitudine. Noi pertanto ‘non siamo’ tutto il nostro corpo (annamaya-kośa), ‘ma abbiamo’ un corpo; noi ‘non siamo’ tutta la nostra energia vitale (prāṇamaya-kośa) che in esso scorre, veicolata dalla respirazione, ‘ma abbiamo’ un’energia vitale; noi ‘non siamo’ tutta la nostra mente ordinaria, razionale ed emozionale (manomaya-kośa), ‘ma abbiamo’ una mente ordinaria; noi ‘non siamo’ tutto l’insieme del nostro intelletto (vijñānamaya-kośa) discriminatore ed intuitivo, ‘ma abbiamo’ un intelletto; noi, infine, ‘non siamo’ tutto il senso di beatitudine profonda (ānandamaya-kośa) che sentiamo quando gli altri kośa sono in armonia tra loro, ‘ma abbiamo’ un senso di beatitudine quando ciò accade. Questa distinzione tra ‘avere’ ed ‘essere’ è legata alle caratteristiche dei kośa, che per natura sono appunto come dicevamo caduchi, relativi, finiti, mutevoli e connessi alle dimensioni della spazialità e della temporalità. Infatti, per l’India, noi ‘abbiamo’ 5 kośa ma ‘siamo’ ben altro, perché la qualifica di “essere” è legata all’immortalità, all’assolutezza e all’immutevolezza della sua sostanza, a quelle caratteristiche assolute che cioè permangono di là e oltre lo spazio e il tempo medesimi e la morte corporale stessa. Ma se ‘non siamo’ i 5 kośa che ‘abbiamo’, allora ‘chi o che cosa siamo’?

“Tu sei Quello”

Tat twam asi”. “Tu sei Quello”, risponde il Vedānta: attraverso la citazione di uno dei “Grandi Detti” (Mahā-Vākya) delle Upaniṣad, noi, ci dice l’India, siamo solo l’ātman, l’anima o in termini più laici la coscenza che si cela ‘oltre’ i 5 kośa stessi che di fatto la avviluppano (il senso di beatitudine profonda del quinto kośa -ānandamayakośa- nascerebbe dal fatto che esso come involucro è il più vicino all’ātman). ‘Quello’ si cela oltre la māyā apparente di cui essi fanno parte e che, una volta individuati e conosciuti mediante la pratica dello yoga, è possibile a nostra volta individuare, conoscere e superare. “Tu Sei la goccia di Dio” che è presente dentro di te”: questa è la grande Verità (Sat) racchiusa nei Veda. Sat, la Verità Suprema, sotto questo profilo, viene allora ad esprimere direttamente, come ci dice Stefano Piano nella sua Enciclopedia dello yoga, «il fondamento di ogni possibile speculazione sull’essere»(p.311): consustanziale all’essere, è ciò che esiste veramente, di là della realtà apparente della māyā. La Sarasvatī Upaniṣad, sotto questo profilo, si inserisce pienamente entro la visione illuminante e disvelante dell’Advaita Vedānta, il sentiero metafisico dei Veda, che sintetizza lo stesso pensiero vedico con i “Grandi Detti” contenuti nelle Upaniṣad, tra i quali Tat twam asi è forse il più famoso. Per questo motivo alcuni di questi “Grandi Detti” sono stati individualmente adottati dai cinque ordini monastici di Adi Śaṅkara, che appunto specificatamente evidenziano questi vari aspetti e profili della ricerca vedantica sull’Essere e i suoi fondamenti. Benchè Brahman nirguṇa (il Dio senza attributi, colui che cioè ha creato ogni cosa) come viene espresso bene nei testi del pensiero metafisico vedico non si riduca solo ai singoli jīvātman degli uomini e benchè del Brahman nirguṇa non sia comunque possibile farne assoluta esperienza se non attraverso una ‘dis-creazione’ individuale totale e assoluta dai kośa, il che significherebbe il loro oltrepassamento totale (come ad esempio in occidente asupicava forse la pensatrice Simone Weil quando faceva riferimento, filosoficamente e poi anche praticamente, a tale concetto), tuttavia i Veda si interrogano anche su di esso, definito come il Paramātman, il “Supremo Ātman”, appunto, «onniscente, onnipervadente, dotato di inesauribile potenza, manifestatore e distruggitore dell’universo» (S. Piano, 2011, p.245) del quale tuttavia, come dicevamo, siccome non è possibile conoscere direttamente, possiamo solo dire ciò che non è (neti-neti). Osserva sul punto Stefano Piano che il suo senso «è il seguente: il detto si applica alla definizione dell’Assoluto (…) che si afferma appunto essere “né così né in un altro modo”. Questo significa che il Brahman non è suscettibile di appropriata descrizione mediante categorie concettuali linguistiche, essendo ciò da cui mente e parola si volgono via senza essere riuscite ad attingerlo»(S. Piano, 2011, p. 228).

Il conoscibile e le sue ‘vie’

L’uomo vedico può quindi solo arrivare ad individuare e conoscere il Brahman saguṇa, ossia lo spirito divino ‘presente’ nelle cose (Puruṣa) e negli uomini (Jīvātman), ma non conoscerlo totalmente, come può arrivare a conoscere “l’osservatore silenzioso” della sua coscienza ma non conoscere totalmente la sua anima.  Quattro, come noto, sono le classiche ‘vie’ di conoscenza da percorrere, atte appunto ad individuarlo, vie che tuttavia non sono divise ma intersecate tra loro: karma yoga (yoga dell’azione), bhakti yoga (yoga della devozione), jñāna yoga (yoga della conoscenza), dhyāna yoga (o Rāja-yoga, lo yoga della meditazione o yoga ‘regale’). Tutte, partendo dalla conoscenza dei kośa attraverso la pratica dello yoga, evidenziano la necessità e il presupposto, nel percorso conoscitivo, del ‘giusto distacco’ (vairāgya) dagli involucri di cui siamo materialmente costituiti, inteso in primis come discriminazione da essi e poi susseguentemente come atto di trascendenza. Come ancora spiega il testo in esame, in realtà, a livello di ‘energia sottile’, è lo “scioglimento del terzo nodo” (granthi) presente nel corpo, il Rudra-granthi, posto in ājñā cakra (ossia il “centro del comando” che, come dicevamo, si trova al centro tra le sopracciglia) che “scioglierà” poi anche in noi ogni dubbio, ogni incertezza mentale, ogni deterrenza interiore, per avviarci e realizzare così, una volta superato l’ultimo involucro che abbiamo, l’ānandamaya-kośa, il samādhi (conosciuto anche come enstàsi) che, in ultima analisi, viene ad essere il fine dello yoga e che a ben vedere si costituisce, in qualità di ‘percorso conoscitivo’, di diversi livelli e gradi, come ci evidenzia Patañjali nei suoi Yoga Sutra. Seguitamente a tutto il ‘percorso conoscitivo’ da noi sintetizzato si avrebbe, infine, la «visione diretta del Supremo» (M.P. Karuna Devi, 2012, p. 460). Una ‘visione del Supremo’ che, si badi bene, è vista innanzitutto come interna a noi poiché in noi esiste, appunto, quella “goccia di Dio” che è identificabile e contemplabile attraverso quella ‘meditazione di conoscenza’interiore, come la definirebbe il ‘mio’ Maestro Suryananda, di cui parlavamo in precedenza (e, ovviamente, i presupposti yogici che la predispongono e la permettono). In sostanza lo yoga porta allo stato di contemplazione che ci permetterebbe la Conoscenza Suprema o, meglio, ciò che di essa, in termini di ‘attributi’(saguṇa) riflessi, come creature, potremmo comunque riuscire a conoscere avvicinandoci il più possibile ad essa, poichè dello stesso Ātman, ossia della stessa ‘goccia divina’ presente in noi, con lo yoga possiamo conoscere solo Draṣṭṛ o Sākṣin, l’ “Osservatore silenzioso” della coscienza.

La sapienza segreta

Come viene osservato ancora direttamente nell’Upaniṣad, a queste condizioni «Anima individuale e Anima Suprema (…) sono solo nozioni» (M.P. Karuna Devi, 2012, p. 460) poichè esse, di fatto, sono la stessa cosa: Ayamātmā brahma (questo ātman è il Brahman) dunque, come recita un altro ‘Grande Detto’ del Vedanta. L’Upaniṣad su Sarasvatī indica e ribadisce, così, al pari di tanti altri testi della “Tradizione” vedica ma anche, a ben vedere, delle altre civiltà, la possibilità di poter effettuare il “perfetto raccoglimento” interiore che porta alla conoscenza dell’Essente, presente sia dentro sia e fuori di noi. Ovviamente il percorso della conoscenza yogica non è affatto facile e, come viene ribadito da più parti, esso, a livello ‘massimo’ è aperto solo a quei pochi che hanno le qualità ma soprattutto che vogliono volgere totalmente il loro impegno per conseguirlo. Tuttavia ciò non deve esimerci dall’intraprenderlo, pur nel rispetto del nostro credo più personale, per conoscerci in profondità sotto tutti gli aspetti, al fine di trasformare la materia sublimandola e di evolvere e sviluppare massimamente la nostra personale coscienza. Di là di tutto, è comunque innegabile che Sarasvatī, per tutti i molteplici aspetti che abbiamo rilevato, rivesta all’interno della cultura vedica (e, ovviamente, all’interno poi della cultura hindū dove essa viene affiancata come divinità a Lakṣmī e a Durgā, per esprimere i tre aspetti  o le tre forme -chiamate in sanscrito trimūrti– femminili del Divino Supremo. Ad esse sono dedicati espressamente in India 9 giorni  consecutivi di festa –Navaratri o Navratri-, durante il mese di ottobre, i primi tre legati al culto della Durgā, la divinità della distruzione, per permettere al devoto di superare interiormente le sue tendenze negative; i tre successivi dedicati a Lakṣmī, l’aspetto divino femminile dell’abbondanza, per far si che egli acquisisca interirmente la ricchezza spirituale; gli ultimi tre dedicati a Sarasvatī, per iniziare benauguratamente il devoto alla ‘Suprema conoscenza’) un ruolo assai rilevante, finalizzato appunto, a diversi livelli e gradi, alla conoscenza interiore di sè e alla ricerca metafisica volte all’indentificazione del Sè, interiore ed esteriore. Tali ricerche, per il ricercatore vedantino ma forse, aggiungerei, per tutti noi, sono finalizzate a dare vera significazione all’esistenza e sono intese come la vera, unica ‘Realtà’ da conoscere: Oṁ tat Sat (Si, Quello è la Realtà). E, in questo conoscere, come recita il Ṛgveda (II.41.16) è innegabile che Sarasvatī sia “nadītame, ambitame, devītame”(Ṛgveda, II.41.16), ossia “la migliore dei fiumi, la migliore delle madri, la migliore delle Dee”.

Bibliografia:

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Sarasvatī, “la migliore dei fiumi, la migliore delle madri, la migliore delle Dee”
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Sarasvatī, “la migliore dei fiumi, la migliore delle madri, la migliore delle Dee”
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Sarasvatī (Saraswati, सरस्वती), significa letterarmente“scorrere”, “fluire” ed è una delle immagini divine indiane più famose, dalle sembianze femminili, raffiguranti la sapienza e le arti. Essa è la rappresentazione del perdono e della...
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Il Giornale dello Yoga
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Circa l'autore

Graziella Sarasvatī Di Salvatore è insegnante qualificato (Yoga Śiromaṇi) di Yoga Tradizionale, membro-insegnante dell'European Yoga Federation ed allieva di Svāmi Sūryānanda Sarasvatī Amadio Bianchi.

Ex docente universitario, iniziata dal suo Maestro con il nome di Sarasvatī, è studiosa del Vedanta che divulga e commenta come relatrice in giornate di studio e convegni e scrive in articoli e saggi.
Il mio sito: Centro Yoga Namaste

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Giulietta
Giulietta
2 anni fa

Graziella Saraswati, Ram Ram.
In 20 anni è la prima lettura che vedo esaustiva piena vera ricca unica di Ma Saraswati.

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