
Perché sei qui? – Dalla voce delle Upanisad
La domanda del Maestro
Una delle domande più antiche che il Maestro poneva agli aspiranti allievi per permetter loro di trascorrere del tempo a contatto con lui praticando lo yoga era: “perché sei qui“?
Come sappiamo, in quell’epoca remota, solo i più meritevoli venivano accolti come adepti dal Maestro per essere ‘iniziati’ esotericamente all'”antica conoscenza”, volta al disvelamento della Verità che essa esprimeva, e la risposta a questa domanda iniziale del Maestro era fondamentale affinché il praticante venisse o meno accolto negli āśrama, a diretto contatto con l’antico sapere. Questo perché il rispondere non solo rivelava fin da subito le intenzioni motivazionali del devoto ma qualificava anche, a ben vedere, il motivo più profondo ed essenziale della sua esigenza di ricercare il senso stesso della vita.
Un “qui” dunque non solo specificatamente localizzante ma anche metaforicamente e più ampiamente essenziale, legato alla propria essenza: perché sei qui in questo mondo? Qual è il tuo scopo, il senso più vero e profondo della tua esistenza? L’esser-ci locale nell’āśrama indicava quindi allo stesso tempo il senso stesso dell’esser-ci nel mondo e la risposta al perché dell’uomo, connessa al suo esistere. A ben vedere questa è la vera significazione che il ricercatore più sincero si poneva e si pone ancora oggi, poiché lo yoga, ieri come oggi appunto, per chi lo pratica autenticamente nel rispetto della sua antica “Tradizione”, non è solo una filosofia e (unitamente all’ayurveda) una scienza della vita, volte alla ricerca e al benessere psico-fisico dell’individuo, ma è anche, appunto, una filosofia e una scienza dello spirito, volte al disvelamento del senso più vero e profondo del nostro essere qui, nel mondo.
In tale ambito il ricercare è strettamente connesso con la comprensione di quel “Tat Sat“, di quella cioè “Reale Verità” trasmessaci dallo yoga che si cela, come direbbe Adi Śankara, oltre “il mondo dei nomi e delle forme” rappresentato dalla māyā (l’illusione) apparente. Il “Tat Sat” è sempre se stesso, in quanto tale, e non diviene mai dal suo stato di essere; esso inoltre non è modificabile né dal corpo, né dal pensiero, né dalle emozioni, né dallo spazio, né dal tempo.

La risposta del Maestro
La risposta finale del Maestro dopo l’ascolto di quella degli adepti, in diretta assonanza e corrispondenza con la risposta contenuta nelle antiche Upaniṣad al “perché sei qui” che lui stesso pre-poneva ai suoi discepoli e, più indirettamente, la risposta più vera e profonda dello yoga, praticato, ieri come oggi, nei suoi diversi ‘sentieri’ (mārga) tradizionali (karma-mārga, jñâna-mārga, bhakti- mārga) e nei suoi otto “rami” classici di conoscenza (astāṅga-yoga) delineati da Patañjali nei suoi Yoga Sutra, era ferma, secca, incisiva: “tu sei qui per ricordarti chi sei“!
Dal tu al noi: il messaggio universale dello yoga
Questa risposta, che vede la “Sacra conoscenza” come un farci ricordare, attraverso la pratica yogica, ciò che, ‘oltre’ appunto l’illusione dei sensi e della mente ordinaria, realmente tutti noi ‘siamo’, qualifica dunque essenzialmente lo yoga stesso e per questa sua importanza, il suo messaggio assume una portata universale, tanto da essere stato dichiarato dall’Unesco “Patrimonio dell’umanità”.
Infatti, in termini più veri e profondi, andare a “fare yoga” ha comportato e comporta, ieri come oggi, il farci incontrare noi stessi connettendoci con le parti più profonde di noi conoscendo, come ci dice bene Śaṅkara nella sua opera Vivekacūḍāmaṇi, le parti che noi “abbiamo” e, oltre esse, ri-conoscendo la parte che più profondamente invece noi effettivamente “siamo”. Il senso di inquietudine che l’essere umano avverte è dato proprio da questa profonda disconnessione che lo yoga può risolvere. Noi, infatti, siamo esseri divini che stanno vivendo in questa vita un’esperienza umana, finalizzata alla possibilità di riconnetterci con tale divinità insita in noi stessi mediante un atto di profondo discernimento e di trascendenza “dis-creativa”, come direbbe Simone Weil.
Questa ‘essenza divina’ dimora in noi come una piccola ‘goccia’ del divino creatore universale esterno (Brahman) che, a ben vedere, è presente, in termini di “spirito vivente con attributi” (Brahman Saguṇa), in noi come in ogni cosa esistente (quello che il Sāmkhya-darśana definisce anche come il puruṣa, ossia lo spirito, della prakṛti, ossia della materia), anche se poi lo “Spirito divino universale”, inconoscibile nella sua totalità, non si riduce solo ad essere presente nella materia ma, come suo creatore, la trascende (Brahman Nirguṇa).

Ciò che ‘abbiamo’
La nostra esperienza qui, su questa terra, come medesimamente la nostra presenza negli āśrama ieri o nei corsi di yoga oggi, ha allora più profondamente ed autenticamente questa intrinseca valenza, questo significato profondo di ricerca interiore, di consapevolezza e di auto-discriminazione consecutiva tra l”avere’ e l”essere’ di cui siamo composti; di presa di coscienza e di ricordo, mediante la pratica yogica, di ciò che effettivamente “siamo” distinguendolo da ciò che invece ‘abbiamo’ e, in ultimo, di tentativo di ri-connessione profonda delle parti che ‘abbiamo’ e che ci costituiscono con tale unitaria ‘essenza’.
Questo perché, parafrasando ancora Śaṅkara, “noi abbiamo un corpo ma non siamo quel corpo”; “noi abbiamo un prāṇa ma non siamo quel prāṇa“; “noi abbiamo una mente ma non siamo quella mente”; “noi abbiamo un intelletto ma non siamo quell’ intelletto”; “noi abbiamo un senso di beatitudine profonda che nasce dall’armonia degli altri involucri (kośa) descritti ma non siamo quel senso di beatitudine profonda”. Noi infatti non possiamo ‘essere’ tali involucri perché essi sono tutti soggetti alla mutevolezza e alla caducità connesse con lo spazio e con il tempo, mentre la condizione di ‘essere’, la sua cioè qualificazione sostanziale, come diceva bene anche Parmenide, è legata al ‘non divenire’ e alla sua immutabile permanenza.

Ciò che ‘siamo’
Ma chi o cosa siamo dunque, se non siamo ma abbiamo gli involucri che percepiamo direttamente con i nostri sensi? Cos’è dunque questo “essere” immutabile, assoluto, che permane oltre le grandezze spaziali e temporali? L’India ci risponde che, di là di tutti gli elementi che “abbiamo” soggetti inevitabilmente alla variabilità, noi ‘siamo’ il “sé interiore” (Ātman) che si cela dentro di noi oltre essi; noi siamo, cioè, “Quello”, il “Tat” di “Tat tvam asi” (“Quello sei tu”, uno dei ‘Grandi detti’ –Mahā-vākya- delle antiche Upaniṣad) che, secondo la Tradizione vedica e vedantica, in qualità di testimone silenzioso (Draṣṭṛ o Sākṣin) a noi percepibile, perché comunque conoscibile solo in parte come è conoscibile solo in parte lo stesso Brahman, dimora piccolissimo in una “caverna del nostro cuore” e che appunto lo yoga, con la sua conoscenza plurimillenaria e le sue tante pratiche ad essa legate, ci dà la possibilità di ritrovare. “Tat Sat“: “Quello è la Verità, Quello è ciò che è”, la vera Realtà. Ecco perché noi tutti siamo qui. Hari Oṁ.
Bibliografia
- Raphael, Tat tvam asi, Āśram vidyā ed., Roma 2001
- Śaṅkara, Vivekacūḍāmaṇi (a cura di Raphael),Āśram vidyā ed., Roma 2004
- Patañjali, Yoga sutra (a cura di P. Scarabelli-M.Vinti), Mimesis ed., Milano 2009
- Upaniṣad (a cura di Raphael), Bompiani, Milano 2010
- S. Piano, Enciclopedia dello yoga, Magnanelli ed., Torino 2011
- G. Di Salvatore, La Verità nella “Tradizione” e l’esperienza di partecipazione all’Essere, tra Oriente e Occidente, in Svāmi Sūryānanda Sarasvatī Amadio Bianchi, Apprendere dal passato, vivere il presente e prepararsi al futuro, SpazioAttivo ed., Vicenza 2014
- G. Di Salvatore, Simone Weil e l’Advaita Vedānta, in A.a.V.v., Esistenza e storia in Simone Weil, Asterios ed., Trieste 2016
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Perché sei qui?
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Una delle domande più antiche che il Maestro poneva agli aspiranti allievi per permetter loro di praticare yoga con lui era: “perché sei qui“?
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Graziella di Salvatore
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Il Giornale dello Yoga
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