
Om śrī gurubhyo namah hāri Om
Oṁ śrī gurubhyo namaḥ hāri Oṁ [I].
Dalla voce delle Upaniṣad .
di Graziella Sarasvatī Di Salvatore
Oṁ śrī gurubhyo namaḥ hāri Oṁ: mi inchino all’eccellente maestro e lo saluto. Cosi per Tradizione dovrebbero iniziare e terminare tutte le sessioni di yoga dove, mediante l’inchino dei praticanti, si saluta triplicemente, nell’ordine 1) l’insegnante qualificato tradizionale che, in qualità di upadeśin (conduttore istruito) ci inoltra nella scienza e conoscenza dello yoga; 2) lo specifico maestro tradizionale di riferimento della propria scuola; 3) il “Maestro interiore”, ossia la propria coscienza (o per meglio dire ciò che di essa possiamo farne diretta esperienza, in altri termini l’ “osservatore o testimone silenzioso”) con cui nello yoga, per mezzo di tali suindicate figure tradizionali che fungono così da metaxù, i praticanti entreranno o sono entrati in diretto contatto.
Il suindicato “saluto al Maestro”, nel suo secondo intendimento, è collegato ad uno dei più famosi e più ampi “Saluto al Guru” che, cantato o recitato, viene utilizzato ancora oggi non solo per salutare il proprio ‘maestro’ di riferimento ma anche, per esempio, dagli Śaṅkarācārya (ossia dai maestri spirituali posti a guida dell’antica tradizione metafisica dell’Advaita vedānta di Śaṅkara), a incipit dell’esposizione e commento della nobile scienza dello yoga, apprestandosi così a ‘salutare’ essi stessi, a loro volta, gli antichi “guru” che hanno esposto il sapere yogico contenuto nei testi vedici tradizionali.
Questo secondo “Saluto”, in sanscrito, recita le seguenti parole: “Guru Brahmā, Guru Viṣṇu, Guru devo Maheśvaraḥ Guru sākṣāt paraṃ Brahmā tasmai śrī Gurave namaḥ che, tradotto letteralmente significa «Il Guru è Brahmā, il Guru è Viṣṇu il Guru è il divino Maheśvaraḥ il Guru è la suprema verità, rendiamo omaggio al sublime Guru»[II].

Per comprendere il suo significato occorre analizzare e comprendere più a fondo la figura del maestro all’interno della cultura dello yoga. A ben vedere tutta la tradizione vedica e i testi filosofici fondamentali dello yoga (si pensi ad esempio alla Bhagavad-gītā o alle Upaniṣad) che ancora oggi vengono studiati e commentati non solo dagli studiosi ma anche da coloro che insegnano, a diverso titolo e grado, lo yoga in tutto il mondo utilizzano e riconoscono, consapevolmente o meno, l’antico “paramparā“, ossia la linea di successione ‘da maestro a discepolo’ che viene utilizzata da sempre per trasmettere gli antichi insegnamenti, dando in esso e con esso importanza sostanziale e fondamentale, appunto, alla figura del Maestro.
Egli, soteriologicamente, comunica ai propri allievi ancora oggi proprio come un tempo (benchè allora, rispetto ad oggi, la comunicazione era rivolta solo agli allievi “più meritevoli” in termini qualitativi di conoscenza e di loro personale consapevolezza ed evoluzione interiore) l’antica saggezza e sapienza sul sè interiore, volta alla propria emancipazione e liberazione karmica (mokṣa), espressa esotericamente nei testi antichi o anche direttamente da loro oralmente, così come essi lo hanno appreso a loro volta direttamente dai propri maestri. Sotto questo profilo facciamo riferimento specifico alla “gnosi”, alla “conoscenza suprema” a cui fa riferimento lo stesso Patañjali negli Yoga Sūtra in cui, seguitamente alla pratica dello yoga nei suoi otto “aṅga” (ossia nelle sue otto fasi o membra di sviluppo di se stessi) si afferma, appunto, quella «luce della conoscenza, fino allo stato della consapevolezza proprio dell’illuminazione»[III].

I maestri tradizionali, che appartengono specificatamente oggi come un tempo agli antichi variegati lignaggi dello yoga sono dunque (‘indirettamente’ attraverso la giusta interpretazione dei testi antichi e ‘direttamente’ attraverso il loro insegnamento, trasmessigli entrambi appunto attraverso il paramparā), gli unici depositari dell’antica conoscenza del sè interiore, in grado di permettere al praticante di sperimentare e conoscere veramente se stesso nel suo profondo, cioè di prendere non solo consapevolezza nel giusto modo del famoso “velo di māyā“, velo dell’illusione e con essi delle “guaine” o degli “involucri” (kośa) illusivi che, nel contesto creaturale della prakṛti (ossia della natura), costituiscono nello specifico la natura dell’essere umano, ma soprattutto essi, mediante lo yoga, sono in grado di far prendere coscienza al praticante di ciò che l’essere umano, come direbbe bene Śaṅkara, di là della māyā stessa, effettivamente e veramente “è”. Sotto questo profilo i maestri sono anche visti e definiti come gli ācārya, coloro cioè «in grado di indicare (…) allo yogin la condotta corretta (ācārya) per il conseguimento della realizzazione (sādhana)»[IV], volta alla mokṣa.
Questa ”presa di coscienza di sè, frutto di una personale consapevole evoluzione interiore che lo yoga, mediante il Maestro tradizionale, permette direttamente ai suoi praticanti di dis-velare e di sperimentare, è dunque la connessione diretta con il proprio “Maestro interiore”, la terza figura cioè che viene salutata nel sopracitato Saluto al Maestro posto a incipit della nostra discussione: per meglio dire, essa è la connessione diretta del praticante con “draṣṭṛ” o “sākṣin“, il cioè famoso “osservatore o testimone silenzioso” della coscienza, sperimentazione diretta del “Quello” di cui si parla ampiamente negli antichi testi vedici e vedantici ufficialmente riconosciuti da tutti, punto di riferimento costante e scopo ultimo speculativo di chi pratica e di chi insegna lo yoga.

Data la conoscenza infinita dell’ātman, benchè siano sempre degli ‘allievi’, i Maestri della Tradizione, come accennavamo in precedenza, sono anche gli unici in grado di trasmettere tale consapevolezza del sè nel modo più autentico e assolutamente corrispondente, a livello interpretativo, dei testi della Śruti, scritti e commentati appositamente in modo esoterico dagli antichi maestri vedici, per essere a loro volta tutelati e protetti nella loro autenticità.
L’importanza del Guru (di ieri come di oggi perchè è bene sottolineare come ancora oggi esistano i maestri tradizionali in grado di fare ciò) è infatti stato sempre quello di trasmettere tali insegnamenti e conscenze nel modo più possibilmente corrispondente alla tradizione plurimillenaria, soprattutto, direi, mediante la “retta conoscenza” discriminativa (viveka) dell’interpretazione dei testi antichi, e, allo stesso tempo, la “chiara visione” della “Verità” che essi racchiudono e che si cela appunto ‘oltre’ l’illusione mayanica che, secondo lo yoga, noi tutti per natura siamo appunto portati a vivere.
Si tratta di quell’illusione che ci fa scambiare, per utilizzare un’espressione vedantica, la “corda per il serpente” facendoci credere che il corpo, l’energia sottile che lo attraversa, la mente e le nostre stesse emozioni, il nostro intelletto e il senso di beatitudine profonda che percepiamo dall’armonia, dalla gioia e dalla piacevolezza delle cose o delle situazioni, costituiscano la nostra vera “realtà” fatta esclusivamente di res, di cose. Si tratta, in altri termini, di quell’illusione che ci porta a confondere la prakṛti con il puruṣa, ossia la natura con lo spirito che si cela dentro di essa. Viveka è l’esercizio di discriminazione della buddhi, dell’intelletto in grado di effettuare tale distinzione e di ascoltare, oltre la māyā, la voce del sè interiore[V]. Tale “conoscenza corretta” comunicataci dal Maestro e che si attua con la discriminazione, ci permette di uscire dalla “errata visione” (avidyā, ossia l’ignoranza, la nescienza, l’errata visione) della realtà, di praticare la “solida attività della cognizione”[VI], di effettuare la “conoscenza corretta” delle cose, come ben dice Patañjali[VII] e, entro le sue caratteristiche intuitive ed astratte, di conoscere di conseguenza ‘oltre’ l’intelletto stesso la Verità dell’Ente assoluto (Sat, il Sè) che, in termini di ātman, sua diretta emanazione, si cela oltre tutto questo, e che appunto in termini microcosmici si mostra a noi come “osservatore silenzioso”.

Lo yoga è sostanzialmente, essenzialmente, un incontro con noi stessi, con le parti che “abbiamo” delle quali prendiamo man mano consapevolezza e verso le quali creiamo salute, armonia e benessere, e con la parte di noi che invece ci qualifica in termini di ciò che, veramente, autenticamente “siamo”, donandoci con ciò la vera felicità. Come recita bene l’Advaita Vedānta commentando gli antichi testi tradizionali, noi ‘non siamo’ il nostro corpo ma noi ‘abbiamo’ un corpo; ‘non siamo’ l’energia vitale ma noi ‘abbiamo’ un’energia vitale; noi ‘non siamo’ la nostra mente ma noi ‘abbiamo’ una mente; noi ‘non siamo’ il nostro intelletto ma noi ‘abbiamo’ un intelletto; noi ‘non siamo’ la beatitudine profonda ma noi ‘abbiamo’ una beatitudine profonda. Noi dunque ‘non siamo’ tutto questo ma ‘siamo’ l’ātman, imperituro e permanente, che possiamo percepire attraverso il nostro “osservatore silenzioso della coscienza” sperimentabile con lo yoga. “Tat tvam asi“, “Tu sei Quello”, recita come noto la Chāndogya Upaniṣad [VIII]: questa è la grande Verità, questa è la vera Realtà, e il Maestro tradizionale è colui che solo, correttamente, ci può togliere dalla “grande ignoranza”, come la chiama Śaṅkara, offrendoci tradizionalmente la ‘chiara’ visione e distinzione tra “realtà” e “Realtà”. Il Maestro è quindi l’indicatore della strada esatta da percorrere «per un corretto conoscere», anche se, tuttavia e ovviamente, egli poi non può sostituirsi a noi «in quest’opera di catarsi e di ascesi»[IX] , atto che, se vogliamo, dobbiamo individualmente percorrere poi da soli. Il Maestro dunque ci indica la strada giusta da percorrere ma poi starà a noi, in piena libertà, decidere se seguirla o meno.
Del resto, la parola stessa Upaniṣad, che si riferisce ai numerosi testi metafisici e filosofici costituenti il Vedānta (ossia la parte conclusiva dei Veda) significa proprio “sedersi ai piedi del maestro ed ascoltare la sua parola”, oltre che «abbandonare (…) l’ignoranza grazie alla conoscenza del Brahman(…)»[X] e a ben vedere quasi tutte le Upaniṣad sono caratterizzate dalla figura di un ‘Maestro’ che, in modo spesso esoterico, risponde alle domande dei suoi allievi: la sua risposta è una parola, quella della Tradizione trasmessa mediante la sua voce, che ispira, che spiega, che istruisce e che soprattutto insegna a livello teorico e pratico la verità dell’ātman insito dentro di noi. Attraverso di essa il praticante non solo può conoscersi a conoscere a fondo le guaine che lo costituiscono e trovare il benessere e la salute dei suoi involucri, ma soprattutto egli può trasformarsi ed evolversi interiormente a contatto con il proprio sè interiore. In questo senso e a questo fine conoscitivo trovano significato e importanza anche tutti e otto gli aṅga“, ossia le otto membra che costituiscono la pratica dello yoga, rilevate da Patañjali negli Yoga Sūtra, che dunque devono essere insegnate in modo corretto all’interno delle sessioni di yoga. Sempre in questo senso trovano anche significato e importanza le “dīkṣā” vediche, ossia le cerimonie di iniziazione conferite dai Guru e ricevute da chi ha i legittimi requisiti necessari (adhikara) per riceverle. E, ancora, in modo più profondo, trovano significato e importanza anche i titoli del lignaggio stessi che l’India autorevolmente e legittimamente attribuisce da sempre a tutti coloro che (entro appunto un lignaggio ben preciso stabilito sulla base del tempo trascorso a contatto con il proprio Maestro, che trasmette loro l’antica conoscenza e sulla propria evoluzione interiore) dovrebbero insegnare, appunto, l’antica scienza dello yoga, cercando di farlo il più possibile rispettandone l’ autenticità. A questo proposito allora, come è stato ben rilevato, «le stesse Scritture sarebbero destinate a restare lettera morta prescindendo dall’insegnamento di un Guru» che dunque comunichi al praticante, «insieme con la Verità in esse racchiusa, spesso velata dal linguaggio mitologico e simbolico, anche la propria esperienza personale di esse e soprattutto la via per pervenirvi»[XI].

Per questo ruolo particolare ed estremamente importante che il Maestro riveste nello yoga, di essere cioè il portatore della conoscenza e il trasmettitore autentico delle verità intese appunto come conoscenza metafisica e scientifica dell’ātman, egli è anche e soprattutto considerato «sadguru (…) sat(a)guru (…) colui nel quale si rivela la luce dell’ātman, il Sè presente in ogni uomo; è lo specchio del Guru interiore che nel maestro si manifesta in sembianze umane»[XII]. In ciò trova giustificazione anche il fatto che il Maestro tradizionale venga riconosciuto e rispettato profondamente da tutti, a livello di rispetto devozionale (bhakti), come rilava Śaṅkara in Vivekacūḍāmaṇi[XIII], all’interno non solo della cultura vedica e specificatamente yogica ma anche, soprattutto in India, da tutti i capi e i devoti religiosi. Egli si presenta sotto la veste spirituale, veste tuttavia ‘laica’ nel senso di ‘non religiosa’ che sostanzialmente lo caratterizza. Guru, figura del lignaggio tradizionale, è allora «chiunque abbia già rappresentato un alto livello nel cammino spirituale e sia capace di condurvi» i propri allievi, e la «sua guida è considerata indispensabile per chiunque voglia seriamente intraprendere un cammino spirituale»[XIV]. in questo continuo cammino conoscitivo del sè interiore, con lui e nella sua persona sapienza e saggezza, come è sempre stato e come dovrebbe sempre essere, si fonderanno inevitabilmente assieme.
Per tali suindicati motivi e per l’importanza essenziale del suo ruolo, a noi sembra allora assolutamente fondamentale che una disciplina conoscitiva come lo yoga, scienza e filosofia di vita cosi seria ed importante, debba essere insegnata non da persone ‘improvvisate’ come sempre più spesso ci accade di constatare nel nostro vivere contemporaneo ma da maestri ed insegnanti tradizionali dello yoga “correttamente ‘istruiti”‘[XV] affinchè lo yoga autentico, quello “delle origini” (e con esso le sue finalità speculative legate al nostro “maestro interiore”), possa essere trasmesso nella sua interezza, integrità e completezza (paripūrna) e, allo stesso tempo, possa essere tutelato dalle mode e dalla superficialità occidentali che lo vogliono relegare come mera ‘attività sportiva’ entro una semplice realtà contorsionistica ed estetica, il più delle volte insegnato da chi ha magari ‘auto-appreso’ lo yoga stesso lontano dal contatto diretto con un maestro tradizionale, come invece secondo noi dovrebbe essere. Ciò perchè, nel rispetto e di là di qualsiasi credo religioso e nella distinzione chiarificatrice tra yoga e sport, l’antica saggezza spirituale dello yoga possa essere conservata e con essa possa essere conservata la stessa figura del Maestro tradizionale verso il quale, proprio come recita “il Saluto” che lo riguarda posto ad apertura del nostro discorrere, come da tradizione torniamo ora di nuovo ad inchinarci e a salutare: Oṁ śrī gurubhyo namaḥ hāri Oṁ.
[I] “Mi inchino all’eccellente Maestro e lo saluto”: questo mio articolo è dedicato al “mio” caro Maestro Sūryānanda Svāmi Sarasvatī Amadio Bianchi che mi ha formata come Yoga Śiromaṇi, iniziata all’India con il nome di Sarasvatī e che con amorevolezza continua a seguirmi nel mio percorso yogico formativo; al “maestro dei maestri” Śri Adi Śaṅkara, fondatore dell’Advaita Vedānta e grande filosofo metafisico dei testi vedici e al maestro Raphael, suo grande studioso e commentatore italiano, nonchè a tutti i maestri tradizionali dello yoga, in modo particolare al lignaggio Sarasvatī al quale mi sento particolarmente affezionata.
[II] Svāmi Sūryānanda Sarasvatī Amadio Bianchi, Apprendere dal passato, vivere il presente e prepararsi al futuro, SpazioAttivo ed., Vicenza 2014, pp.192-193. Seguitamente, nel testo, sono riportati altri due ulteriori “Saluti al Guru“: «ānanda Guru Oṁ ānanda Guru Oṁ ānanda Guru Oṁ ānanda Guru Oṁ ānanda Guru Satchidānanda Guru Oṁ ānanda Guru Satchidānanda Guru Oṁ» (Ivi, p.193) che nella traduzione interpretativa del Maestro Sūryānanda significherebbe «oh Maestro di beatitudine, oh beato Maestro di verità, coscienza e beatitudine»(Ibidem), e ancora «jaya Guru mata śaraṇam svāmi…(nome del Maestro)…śaraṇam śaraṇam» ossia «venerato e vittorioso Maestro proteggimi, proteggimi» (Ibidem).
[III] Svāmi Sūryānanda Sarasvatī Amadio Bianchi, La gioia di vivere, SpazioAttivo ed., Vicenza 2013, p.47, in cui l’autore nelle pagine anche precedenti e successive ci presenta la traduzione integrale degli Yoga Sūtra di Patañjali.
[IV] S. Piano, Enciclopedia dello yoga, Magnanelli ed., Torino 2011, p. 11.
[V] Sul punto cfr. l’interessante metafora della “Parabola del carro”, contenuta nella Katha Upaniṣad. Per una sua ampia discussione, cfr. G. Di Salvatore, Alla ricerca del sè. Riflessioni sulla “Parabola del carro” delle Upaniṣad e sul “Mito della Biga alata” di Platone, da una lettura di Simone Weil, in “Metabasis”, rivista on-line, Novembre 2013, anno VIII, n°16, pp.77-106.
[VI] Patañjali, Yoga Sūtra, in Svāmi Sūryānanda Sarasvatī Amadio Bianchi, La gioia di vivere, cit., p. 47.
[VII] Ivi, pp.32-34.
[VIII] Sul punto cfr. Sarasvatī G. Di Salvatore, Maestro, chi sono io? Dalla voce delle Upaniṣad , ne “Il Giornale dello yoga”, rivista on-line, 8 settembre 2017.
[IX] Śaṅkara, Vivekacūḍāmaṇi (a cura di Raphael), Ed. Āśram Vidyā, Roma 1996, p.35.
[X] S.Piano, Enciclopedia dello yoga, cit., p. 366.
[XI] Ivi, p.122.
[XII] Ibidem.
[XIII] Sul punto cfr. in modo particolare Śaṅkara, Vivekacūḍāmaṇi, cit., p. 43ss. .
[XIV] S. Piano, Rnciclopedia dello yoga, Magnanelli ed., cit., p.122.
[XV] Sul punto cfr. Svāmi Sūryānanda Sarasvatī Amadio Bianchi, La gioia di vivere, cit., pp. 317-318.
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Graziella Sarasvatī Di Salvatore
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