
Karma-Margā: il sentiero dell’agire (1). Dalla voce delle Upaniṣad
“Yogaḥ karmasu kauśalam”
“OṀ Vāgdevyai vidmahe kāma-rājāya dhīmahi tanno devī pracodayāt OṀ“(2).
Lo yoga tradizionale descrive nei testi vedantici 3 mārga, ossia tre ‘sentieri’ classici per la realizzazione dello yoga: il Karma-mārga (la via o il sentiero dell’agire o dell’operare), il Bhakti-mārga(la via della devozione o dell’amore devozionale), il Jñāna-mārga (la via della conoscenza, della sapienza e della ‘retta’ interpretazione).
Il Karma–mārga è inteso triplicemente come: azione rituale e sacrificale, azione conoscitiva e riflessiva e, in termini autoreferenziali, azione ‘finalistica e salvifica’, e dunque esso è collegato anche agli altri due sentieri, da intendersi tra loro complementari.
Entro il sentiero dell’agire abbiamo il Karma-yoga, definito come lo “yoga dell’azione” ed esposto e così argomentato nel 3° capitolo della Bhagavad-Gītā, dove si sostiene che non basta speculare intellettivamente l’antica conoscenza e praticarla con atteggiamento devozionale (rispettoso del Divino che è dentro e fuori di noi) ma occorre agire, operare in un modo tuttavia ben preciso.

Il Sanāthana Dharma e la giustizia
Ma qual è questo specifico ‘modo’ in che termini cioè dobbiamo agire; perchè dobbiamo farlo e non rimanere, per esempio, nell’inazione e per cosa dobbiamo agire?
Noi, come Arjuna, l’eroe della Gītā, siamo tenuti eticamente ad agire non solo nel sociale ma in termini più profondamente spirituale in noi stessi, poichè tali azioni esteriore ed interiore dovrebbero essere, a determinate condizioni, il conseguimento della realizzazione universale del Sanāthana Dharma, la “norma” eterna, la “legge universale” e immutabile, che regna su ogni cosa della Realtà (qui il termine ‘Realtà’, utilizzata in maiuscolo, significa ‘il fine ultimo’, ‘l’essenza autentica’ delle cose). Il Dharma è l’espressione della “Giustizia divina” che governa in modo equanime il mondo e che lo regola, appunto, secondo armonia ed quilibrio, Verità e giustizia. Pertanto, dobbiamo agire o operare e non rimanere nell’inazione per permettere al mondo di compiersi spiritualmente, di realizzarsi cioè compiutamente nel Dharma, e, medesimamente, dobbiamo agire per “realizzarci” nella nostra vita profondamente ed essenzialmente. Dunque, i due termini non sono scissi, ma strettamente collegati tra loro: la nostra essenza e la nostra realizzazione sono necessariamente uniti all’essenza e alla realizzazione del mondo a noi esterno.
Ma come possiamo realizzare noi stessi ed il mondo? Come possiamo conseguire cioè il Sanāthana Dharma dentro e fuori di noi? Questo è l’antico problema dei Veda, connesso al “disvelamento” della cosiddetta māyā, alla ricerca di ciò che si cela “oltre” l’illusione dell’apparenza di noi stessi e del mondo a noi circostante. Per farlo, ci ‘indicano’ i Veda, occorre necessariamente compiere la “guista” azione. Karma yoga significa quindi proprio questo: compiere azioni giuste, ben operare(3)!

E come possiamo compiere le azioni e operare in modo giusto, cos’è più profondamente la giustizia e quali sono i fondamenti che qualificano un atto giusto?
L’azione, il karman, deve innazitutto essere svolta “senza attaccamento”, o, per meglio dire, essa deve essere conseguita “con il giusto distacco” da assumersi a priori (vairāghyā, 4) ed a posteriori, rinunciando sia prima sia successivamente al frutto delle proprie azioni (tyāga, 5). Per meglio dire e chiarire, essa deve essere eseguita con “distacco” totale dai desideri emozionali mentali e da qualsiasi condizionamento illusorio della māyā.
Dobbiamo tener presente innanzitutto che la nostra azione sarà una conseguenza della nostra ‘natura’, della nostra cioè condizione di nascita e di comprensione: tuttavia, partendo da ciò, noi tutti dobbiamo agire “al meglio” di ciò che possiamo fare, e noi stessi con la nostra azione dobbiamo allo stesso tempo fungere da esempio e da ausilio per gli altri (da qui, anche, l’importanza della figura esemplare nello yoga del Maestro Tradizionale).
Inoltre, l’azione deve essere conseguita mediante l’esercizio continuo degli Yama e Niyama dello yoga, le virtù cioè etiche e dianoetiche interiori e comportamentali (6), descritteci sinteticamente da Patañjali nei suoi Yoga Sūtra, ed esse, soprattutto, devono essere condotte attraverso l’auto-esercizio continuo della ‘giustizia’ che a ben vedere li fonda e li qualifica mediante la presenza o l’assenza della cosiddetta phrónesis, la ragionevolezza cioè che ci porta alla comprensione del ‘giusto atteggiamento’ innanzitutto interiore da adottare in noi stessi, e che dunque di conseguenza guida e qualifica il nostro scegliere e ‘ben operare’ esteriore, rivolto agli altri e alla società.

Il Karma e i suoi molteplici aspetti
Come accennavamo prima, con la nostra azione giusta possiamo ‘spezzare la catena del karma‘. Solo infatti agendo ‘secondo giustizia’ e dunque ‘realizzando il Dharma’, ci dice il Vedanta, la nostra azione conseguente non produrrà alcun altro effetto karmico.
Ma cos’è il Karma? Karma significa ‘azione’, intesa anche nell’immaginario collettivo come la somma dei risultati positivi e negativi di tutte le azioni che abbiamo compiuto in questa e, nella visione indiana, anche nelle altre nostre vite precedentemente vissute. Da esse, dalle scelte giuste o ingiuste che hanno determinato le nostre azioni, è dipeso il nostro passato, dipende il nostro presente e dipenderà poi il nostro futuro, di questa e di altre vite. L’uomo, nella visione vedantica e sotto questo profilo, è quindi arbitrariamente libero di costruirsi da sé il suo destino, sulla base delle sue scelte. Il Vedanta distingue in particolare tre tipi di karma: il sañcita-karman, ossia il cumulo ‘karmico’ delle vite passate i cui frutti non sono ancora giunti a maturazione; il prārabdha-karman, ossia ciò che è stato maturato in termini di “impressioni” in passato e porta i suoi frutti adesso, in questa vita; il kriyamāna o sañciyamāna-karman, il karma accumulato in questa vita, dal quale dipenderanno le nostre eventuali vite future (7). E, in questa triplice distinzione del karma, esso distingue anche, metaforicamente, diversi “colori” legati alle azioni che vengono e possono essere intraprese dalle persone: abbiamo l’azione “nera“, che è quella del malvagio; l’azione “bianca e nera“, che è quella della persona comune; l’azione “bianca“, che è quella del praticante di yoga, di colui che ne studia i testi o dell’asceta e l’azione, si badi bene, “né bianca né nera” (8), che è quella dello yogin liberato dalle afflizioni dei cosiddetti nostri 5 “involucri”(kośa) che, per natura noi tutti “abbiamo”.
Le nostre azioni sono spinte e determinate, come dicevamo, dal nostro personale grado evolutivo di coscienza e consapevolezza di ciò che realmente”siamo” e di ciò che realmente “abbiamo”, come recita il Vedanta, e dunque esse sono condizionate dalla presenza o dall’assenza delle impressioni appunto mentali, in termini di vāsanā (impressioni mentali latenti delle vite passate) e di saṃskāra (impressioni indelebili) che hanno qualificato le nostre trascorse consapevolezze. Sono dunque tali impressioni mentali che ci fanno scegliere e ci spingono all’azione giusta o ingiusta, creando così il nostro karman ed attualizzando appunto gli stati modificazionali della nostra mente, che a loro volta producono e produrranno altri stati mentali, emozionali e razionali, e altre consequenziali afflizioni.
Pertanto, solo quando ci saremo completamente svuotati dei desideri, solo quando cioè le nostre scelte ed azioni saranno disinteressate (nel mero senso moderno del termine “interesse“(9)), solo quando avremo “arrestato” e “aggiogato” il cosiddetto “vortice mentale”, solo quando dunque saremo entrati con la pratica dello yoga nello “stato stesso di yoga”, che è conoscenza profonda di noi stessi, di ciò che ‘abbiamo’ e di ciò che ‘siamo’, ecco che oltre questo ‘velo di māyā‘ che copre ogni cosa facendocela vedere come realtà tuttavia falsa, noi potremmo con la nostra vera essenza (con il nostro sé interiore, con l’ātman o per meglio con ciò che di esso possiamo farne esperienza, in termini di draṣṭṛ o sākṣin, cioè di “Osservatore silenzioso della coscienza”) comprendere e connetterci con la vera Realtà. E, solo allora, potremmo finalmente agire ‘con giustizia’ e rettitudine e realizzare il Dharma fuori e dentro di noi, connettendoci così con il divino che è appunto dentro di noi, nel nostro cuore e, a ben vedere allo stesso tempo anche fuori di noi, in termini di “puruṣa“, di “spirito vivente”delle cose.
Ciò che “abbiamo” e ciò che “siamo”
Oltre gli involucri che ‘abbiamo’ ma di cui ‘non siamo’ pertanto, come ci spiega bene Śaṅkara nel suo Vivekacūḍāmaṇi (10), esercitando il ‘giusto distacco’ da essi, noi potremmo connetterci con ciò che davvero ‘siamo’ e che a ben vedere è in essi avviluppato, che è la nostra vera, “Reale Essenza”, il nostro fondamento. Questo è il fine ultimo del karma-yoga, questo è il fine ultimo dello yoga stesso!
Qualcuno ha detto che “noi viviamo sulla terra ma siamo cittadini del cielo”, che “siamo esseri divini che fanno delle esperienze umane”, che siamo qui, come per Platone (11), per “conoscere in quanto ricordare”: dobbiamo dunque in termini finalistici e ‘salvifici’ realizzarci spiritualmente mediante la cosiddetta “dis-creazione o de-creazione” come direbbe la filosofa mistica Simone Weil, per ritrovare la nostra vera essenza e così congiungerci con essa: lo yoga, in tal contesto, ne è il mezzo, la possibilità conoscitiva offerta a tutti coloro che cercano un senso più vero e profondo del loro essere qui nel mondo.
Pertanto, il Karma-yoga e le altre due vie classiche di conoscenza, gli otto gradini di Patañjali e le innumerevoli tecniche yogiche di questa cultura plurimillenaria sono i mezzi, metaxù per realizzare la nostra libertà spirituale dalle catene dell’immanenza e di quella realtà, vera solo in apparenza.
Ovviamente, come accennavamo prima, occorre realizzare il Dharma partendo da dove in questa vita ci troviamo a causa del nostro trascorso karma, e possiamo farlo in termini di possibilità con i mezzi conoscitivi che abbiamo e che ci vengono offerti dalla Tradizione: in ciò, opera, conoscenza e devozione sono appunto le strade complementari, da comprendere e seguire.

Sotto questo profilo finalistico e salvifico per noi e per il mondo, allora, il karma non è da intendersi in modo punitivo, come frutto di un “dio” o di un “universo” vendicativi ma la sua esistenza è da interpretarsi in modo altamente educativo per noi, poichè noi siamo qui per fare esperienza e per imparare da essa trascendendola e l’intervento ‘livellatore’ del Dharma, quando si compiono atti tracotanti che oltrepassano la giusta misura delle cose, trova in tal contesto il suo fondamento nella ‘giustizia distributrice’ divina. Esso serve dunque alla nostra “evoluzione” interiore, e, finalisticamente, alla realizzazione nel mondo che si compIe anche mediante la nostra “unione” con il divino (in tal senso nel nostro inter-Esse), attraverso cioè questo nostro ricongiungimento con esso. Del resto infatti, questo ritorno all’Essente non è rivolto solo a noi ma, attraverso di noi, a tutti gli altri esseri che abitano questa vita, quindi noi siamo anche uno strumento, come lo yoga, per questa finalità salvifica collettiva. Il Karma serve dunque a realizzare tutto questo.
Perchè ciò sia possibile, dobbiamo seguire la “legge interiore” che, a ben vedere, è e coincide con la ‘legge divina’, come rileva bene Antigone quando fa appello a “dikaiosyne“, la legge appunto della sua coscienza, poichè dobbiamo seguire sempre il nostro “sé interiore”, in accordo con la volontà e il disegno divini (12).
Ma come possiamo farlo, come possiamo cioè distinguere concretamente il sé interiore dentro di noi e quindi ben operare e realizzare la giustizia e il Dharma; come possiamo realizzarci, compierci essenzialmente, liberarci, connetterndoci con il nostro sé interiore e distinguendolo dalla māyā?
Con la pratica dello yoga, ci rispondono i Veda: una pratica qui intesa, ovviamente, in termini assolutamente ‘tradizionali’ poichè solo i Maestri degli antichi lignaggi sono i detentori di tale esoterica conoscenza, trasmessa ancora oralmente mediante il paraparā o anche contenuta nei testi vedici, tuttavia ancora esoterici e dunque di difficile lettura e giusta, ‘retta interpretazione’, senza l’ausilio e il supporto del Maestro Tradizionale.
Noi possiamo essere raffigurati da quel famoso “carro” della Kaṭha Upaniṣad, che ben descrive, appunto, l’essere umano e la sua condizione, unitamente a ciò che egli “ha” e a ciò che egli “è”.
Il testo ci rappresenta come un carro (che è la raffigurazione specifica del nostro corpo), un’auriga (che è il nostro intelletto discriminativo), due redini (che è la nostra mente ordinaria), cinque cavalli (che sono i nostri cinque organi di senso) e un ospite (l’anima, la coscienza, il nostro sè interiore). L’ospite del carro non parla con le parole ma è raffigurato come un ospite “silenzioso” che tuttavia comunica con il cocchiere (l’intelletto) in ‘altri modi’ per dirgli dove andare (13). Questi ‘modi altri’ dalla parola sono l’intuizione, l’arte e quello che chiamiamo il “sesto senso” istintivo che precede e con la pratica della meditazione segue la mente stessa.
Per comprenderne la natura, dobbiamo tuttavia prendere innazitutto consapevolezza dei nostri 5 involucri, attraverso la pratica dello yoga o anche della meditazione, e possiamo farlo, si badi bene, anche adottando un semplice āsana, osservando attentamente in esso, con retta discriminazione, i nostri cinque kośa che ‘abbiamo’ poichè in essi, recitano le Upaniṣad, è avviluppato appunto l’ātman, il sè interiore, il nostro vero, autentico ‘Essere’.
La natura del sè
Ma qual è la natura del sè e cosa di ‘esso’ possiamo conoscere? Di ‘esso’, o per meglio dire di “Quello” come lo chiamano i testi vedantici, su cui darò solo qualche piccolo accenno utilizzando la tecnica classica vedantica del “ne-ti ne-ti“, ossia del “non questo, non quello” o del “né così, né in un altro modo”, possiamo solo provare a dire ciò che Quello “non è”, definendolo in altri termini solo, per quanto ci è possibile, in negativo. In quanto “Osservatore silenzioso”, ‘Quello’, avviluppato nel “mondo dei nomi e delle forme”, è privo di parola, quindi non è il nostro ‘chiacchiericcio interiore’; esso è privo di qualsivoglia espressione specifica e dunque non è né triste né felice, né giusto né ingiusto poichè si erge a una condizione più elevata dell’etica che distingue lo stesso bene dal male o la tristezza dalla felicità, connessi invece, si badi bene, agli involucri (kośa) dell’intelletto discriminativo e della beatitudine profonda, a esso più vicini. Come una sorta di “dáimōn“, per utilizzare ancora un’immagine platonica, “Quello” è dunque un metaxú che si presenta, oltre la forma, come un ‘vuoto’ di essa privo ma, assolutamente, pieno, appagante.
“Quello” è, lo accennavamo, un ‘silenzio’ percepito come assenza di parola tuttavia eloquente, che a ben vedere vanta una lunga tradizione conoscitiva e realizzativa in India legata al leggendario saggio Dakshinamurti (il giovane saggio che impartiva la “sacra conosceza del sè” ai saggi più anziani, poi divenuti suoi allievi, attraverso il silenzio, al quale è dedicata anche una esplicita Upaniṣad e al quale lo stesso Maestro Śaṅkara dedica anche un famoso Inno (14)), da cui discende per lignaggio il famoso Ramana Maharshi, il “saggio di Aruṇācala” che era spesso assorto nel silenzio penetrante del sé e impartiva a sua volta la conoscenza medesima del sé a chiunque andasse a visitarlo, attraverso appunto tale, profondo silenzio (15).
Tutti noi possiamo sperimentare il sè interiore in termini di draṣṭṛ o sākṣin nella pratica dello yoga tradizionale, ma possiamo farlo solo a condizione che la nostra pratica non sia autoreferenziale e auto-esaltante degli involucri ma appunto tali involucri vengano visti come dei metaxù per la conoscenza del sè. A questa condizione, allora, come appunto avvennavamo prima, anche attraverso un semplice āsana possiamo prenderne diretta consapevolezza del sè, o, per meglio dire appunto, dell’ “osservatore silenzioso”.
Occorre chiarire infatti che “Quello” non si riduce per sua essenza a ciò che di esso possiamo conoscere ma, similmente a Brahman, trascende noi stessi nel suo essere anche “nirguṇa” -si pensi a tal proposito, per esempio, al Turīyatita, lo spazio che si trova oltre turīya, il puntino nero (bindu) posto sopra al “velo di māyā” della Oṁ(16), e dunque di “Esso” possiamo conoscere solo una minima parte, in altri termini la parte dell’ ātman saguṇa, cio dell’ ‘Osservatore silenzioso’ della coscienza che si mostra a noi e che è suo diretto riflesso ‘gunico’, con specifiche qualità ed attributi. Questa conoscenza può avvenire però solo se ci poniamo con attenzione al suo ascolto, ‘oltre’ la nostra mente e ‘oltre’ la conoscenza e presa di consapevolezza dei nostri stessi cinque kośa, che sono i mezzi atti a raggiungerlo, e dunque solo se pratichiamo lo yoga tradizionale, con impegno, serietà, dedizione ed esercizio delle virtù.
Per quanto detto “yoga è” allora anche “abilità dell’azione”, nel mentre ci si incammina nella conoscenza del sè e quando si viene entra a diretto contatto con il sè stesso. Come recita un famoso passo della Bhagavad Gītā, l’abilità dell’azione non è tuttavia assolutamente finalizzata a soddisfare i nostri bisogni egoistici e i nostri cinque kośa ma è in stretto collegamento ‘liberatorio’ con il Karma–mārga e in stretta ‘unione’ finalistica con il sè e con le sue ‘neutrali’ caratteristiche a cui lo yoga stesso, con i suoi triplici sentieri conoscitivi e le sue innumerevoli pratiche, si volge. Infatti, «Colui che ha raggiunto l’equilibro dell’intelligenza aggiogata elimina anche in questo mondo tutti e due, il bene e il male. Lotta dunque per (realizzare) lo yoga», poichè «yogaḥ karmasu kauśalam», ossia «yoga è abilità nell’agire» (17).
Da e per tutto questo, auguro a me e a tutti voi, attraverso la pratica dello yoga, di farne sempre più diretta esperienza e, per questo motivo, voglio concludere questo mio discorso con il tradizionale “Saluto al Maestro”, con cui solitamente inziano e terminano le lezioni di yoga, e attraverso cui si saluta, triplicemente: l’insegnante che ci inoltrerà nello yoga, il Maestro della Tradizione di riferimento della scuola e con lui, a ritroso, tutti i Maestri tradizionali del suo lignaggio e della stessa Tradizione e, in ultimo non per grado di importanza, il nostro “Maestro interiore”, la nostra coscienza, con cui attraverso lo yoga cerchiamo sempre di entrare a diretto e stretto contatto.
OṀ śrī gurubhyo namaḥ hāri oṁ, oṁ śānti śānti śānti OṀ (18).
Buona vita a tutti, Hari Oṁ Tat Sat.
-
Questo mio articolo trae spunto dalla Conferenza che ho effettuato allo Yoga Pescara Festival , 6° Edizione, il 7 Aprile 2019. Ringrazio doverosamente gli organizzatori della manifestazione, in modo particolare Michele Meomartino e Alberto La Morgia per l’invito e la loro gentilezza, il “mio” caro Maestro Mahamandalesvar Svāmi Sūryānanda Sarasvatī Amadio Bianchi, che come karma-yogin diffonde lo yoga tradizionale nel Mondo, per avermi dato la possibilità di partecipare e per la stima che ripone in me ogni giorno e la fiducia mostratami, e ringrazio anche, per i suoi preziosi consigli, Mahamandalesvar Svāmi Shivananda Sarasvatī del Surya Chandra Yoga Ashram di Roma. Ringrazio, infine, ma non in ultimo per grado di importanza, tutti coloro che mi sono stati energeticamente ed affettivamente vicini e tutti i partecipanti presenti alla Conferenza, per la pazienza, il vivo interesse e l’attenzione prestatimi nell’ascoltarmi.
-
OṀ Conosciamo l’immagine divina (luce) della Parola (dei Veda, della conoscenza), meditiamo sul (nostro) desiderio regale (del conoscere) affinchè possiamo comprendere il suo corpo universale OṀ . Questo mantra viene tradizionalmente utilizzato ogni qualvolta ci si accinge a leggere o a discutere i testi metafisici indiani, in modo particolare da chi porta il nome iniziatico della Devi Sarasvatī . Esso è stato da me invocato all’inizio della Conferenza come momento di concentrazione circa l’argomento metafisico tradizionale su cui mi accingevo a presentare e dicutere.
-
Sul punto cfr. direttamente S.Radhakrishnan (a cura di), Bhagavad Gītā, Ubaldini ed., Roma 1964, in modo particolare Karma Yoga o la via dell’agire, pp. 160-183.
-
Sul punto cfr. S. Piano, Enciclopedia dello yoga, Magnanelli ed., Torino 2011, p. 371.
-
Sul punto cfr. Ivi, p. 363.
-
Sul punto osserva analogamente Mahamaṇḍaleśvara Svāmi Sūryānanda Sarasvatī A. Bianchi (in Prefazione a G. Di Salvatore, Yoga della vita quotidiana, Ed. Dissensi, Viareggio 2018, p. 13): «Il ritrovamento della realtà del Sé diviene “salvifico” per l’essere umano (…). Ciò si ottiene con l’esercizio costante, attraverso il dominio del desiderio, con il vairāgya (distacco, disidentificazione) e la pratica della virtù ».
-
Sul punto cfr. S. Piano, Enciclopedia dello yoga, cit., pp.160-161.
-
Cfr. Ivi, p.161.
-
Sul punto cfr. G. Di Salvatore, L’inter-esse come metaxú e práxis, Giappichelli, Torino 2006.
-
Śaṅkara, Vivekacūḍāmaṇi. Il gran gioiello della discriminazione, a cura di Raphael, Edizioni Āśram Vidyā, Roma 2004.
-
Non citiamo questo filosofo a caso: egli è considerato da molti studiosi il “Padre della mistica Occidentale” e, assieme ad altri grandi pensatori Greci, come per esempio Pitagora o Parmenide, è visto come influenzato indirettamente dal pensiero vedantico attraverso le cosiddette “Religioni misteriche” della Grecia antica (in modo particolare i “misteri” Orfici ed Eleusini, direttamente collegati al pensiero metafisico indiano). Sul punto cfr. G. Di Salvatore, La Verità nella “tradizione” e l’esperienza di partecipazione all’Essere, tra Oriente e Occidente, saggio introduttivo a S.S.S.Amadio Bianchi, Apprendere dal passato, vivere il presente, prepararsi al futuro, SpazioAttivo ed., Vicenza 2014, pp. 17-77.
-
Sul punto cfr. il saggio G. Di Salvatore, Giustizia e legge: i personaggi dell’Antigone di Sofocle, in A.a.V.v., Dike polypoinos, Cleup, Padova 2004, pp.105-123 e la monografia Ead., Tra potere e coscienza, Galaad Edizioni, Roma 2013, in particolare pp.18-26 e 107-127.
-
Sul punto cfr. G. Di Salvatore, Alla ricerca del sè. Riflessioni sulla “Parabola del carro” delle Upanisad e sul “Mito della biga alata di Platone, da una lettura di Simone Weil, in “www.metabasis.it” , Rivista Internazionale di Filosofia on-line, Novembre 2013, anno VIII, n°16, pp.72-106 e i riferimenti bibliografici in esso contenuti.
-
Cfr. direttamente sul punto Beatrice Polidori Udai Nath (a cura di), Inno a Dakshinamurti, di Sri Adi Shankaracharya, , in “Turiya, il blog di Visionaire.org”, in www.blog.visionaire.org , 25 Luglio 2010.
-
Sul punto cfr. P. Mandala, Il suono del silenzio. La presenza di Ramana Maharshi, Ed. Mediterranee, Roma 2012. Un aneddoto narra che Carl Gustav Jung, nel suo viaggio in India che tanto influenzò, come noto, la sua teoricizzazione e conoscenza dell’inconscio, si rifiutò di incontrare Maharishi, forse per paura del suo appunto “penetrante” silenzio.
-
Sul punto cfr. G. Di Salvatore, OṀ , la sillaba mistica. Dalla voce delle Upaniṣad, “Il Giornale dello Yoga”, 7 Novembre 2017.
-
S. Radhakrishnan (a cura di), Bhagavad Gītā, cit., p.147. L’intero versetto 50 del Secondo Capitolo, infatti, che Icilio Vecchiotti commenta e traduce in italiano così, recita in sanscrito: «buddhiyukto jahātī ‘ha ubbe sukṛtaduṣkṛte tasmād yogāya yujyasva yogaḥ karmasu kauśalam» (Ibidem), e infatti per comprendere appieno tale definizione dello yoga occorre leggerlo con le parole che, appunto, lo precedono.
-
Sul punto cfr. G. Di Salvatore, OṀ śrī gurubhyo namaḥ hāri oṁ. Dalla voce delle Upaniṣad, “Il Giornale dello yoga”, 4 Dicembre 2018.
-
BIBLIOGRAFIA:
-A. Bianchi Svāmi Sūryānanda Sarasvatī, Apprendere dal passato, vivere il presente e prepararsi al futuro, SpazioAttivo ed., Vicenza 2014;
–G. Di Salvatore, Giustizia e legge: i personaggi dell’Antigone di Sofocle, in A.a.V.v., Dike polypoinos, Cleup, Padova 2004;
-G. Di Salvatore, L’inter-esse come metaxú e práxis, Giappichelli, Torino 2006;
-G. Di Salvatore, Tra potere e coscienza, Galaad Edizioni, Roma 2013;
-G. Di Salvatore, Alla ricerca del sè. Riflessioni sulla “Parabola del carro” delle Upanisad e sul “Mito della biga alata di Platone, da una lettura di Simone Weil, in “www.metabasis.it” , Rivista Internazionale di Filosofia on-line, Novembre 2013, anno VIII, n°16, pp.72-106;
-G. Di Salvatore, OṀ , la sillaba mistica, “Il Giornale dello Yoga”, 7 Novembre 2017;
-G. Di Salvatore, Yoga della vita quotidiana, E. Dissensi, Viareggio 2018;
-G. Di Salvatore, OṀ śrī gurubhyo namaḥ hāri oṁ. Dalla voce delle Upaniṣad, “Il Giornale dello yoga”, 4 Dicembre 2018;
-P. Karuna Devi, Le 108 Upanishad, Leipzig 2012;
-P. Mandala, Il suono del silenzio. La presenza di Ramana Maharshi, Ed. Mediterranee, Roma 2012
-S. Piano, Enciclopedia dello yoga, Magnanelli ed., Torino 2011;
-B. Polidori Udai Nath (a cura di), Inno a Dakshinamurti, di Sri Adi Shankaracharya, , in “Turiya, il blog di Visionaire.org”, in www.blog.visionaire.org. , 25 Luglio 2010;
S.Radhakrishnan (a cura di), Bhagavad Gītā, Ubaldini ed., Roma 1964;
-Raphael (a cura di), Upaniṣad, Bompiani, Milano 2010;
-Śaṅkara, Vivekacūḍāmaṇi. Il gran gioiello della discriminazione, a cura di Raphael, Edizioni
Āśram Vidyā, Roma 2004.